Esperienze di vita come palestra per competenze soft: l’innovativo metodo di Lifeed

Ospite a Cooling Break di E tu cosa fai?, Riccarda Zezza, fondatrice e CEO di Lifeed e co-autrice del libro “Maam – Maternity as a Master”, racconta la sua storia e l’innovativo metodo di Lifeed per lo sviluppo di competenze soft, incentrato sul Life based learning

Partiamo dalla sua storia, cos’è Lifeed? Da dove nascono l’idea e il suo libro?

Cinque anni fa ho aperto la società Life Based Value, la mamma di Lifeed, una piattaforma tecnologica sviluppata con Andrea Vitullo, un executive coach, basata su un innovativo metodo formativo che trasforma la vita in una palestra per le competenze soft, sempre più richieste dalle aziende. Dieci anni fa, con la seconda maternità, mi sono resa conto dell’enorme conflitto tra vita e lavoro. Avevo di fronte grande paradosso: l’azienda mi faceva fare costosissimi corsi di formazione in cui era sempre difficoltoso ricreare situazioni per sviluppare competenze soft, quando in realtà veniva completamente ignorata un’incredibile palestra naturale come la maternità. La prima figlia, Marta, è stata questa palestra, il secondo, Luca, ha innescato il cambiamento. Ho iniziato a fare ricerca su un nuovo metodo di formazione basato su un punto di vista che includesse le esperienze di vita in un’ottica di formazione più ampia. Da qui nasce anche il libro “Maam- Maternity as a Master ” in cui abbiamo riportato le tante evidenze scientifiche che abbiamo trovato rispetto alle esperienze di vita come momenti di sviluppo delle risorse.

Lei ha vissuto la transizione della maternità che ha innescato il cambiamento, ma tanti altri la vivono in situazioni diverse. È qui che si innesta il vostro metodo?

Le transizioni sono tante e hanno molte caratteristiche comuni, la maternità è solo una. La pandemia è il primo caso di transizione globale condivisa, perché posso chiamare uno sconosciuto dall’altra parte del mondo e avremo un argomento di conversazione. La transizione è una trasformazione identitaria, segna un prima e un dopo, intervallati da una fase neutra di passaggio in cui tutto cambia, non ci sono punti di riferimento, ma c’è la possibilità e la necessità di crearne di nuovi. Se le imprese stanno accanto alle persone incorniciando correttamente la transizione hanno diversi effetti positivi: aumenta l’engagement tra la persona e l’azienda, perché abbiamo bisogno di ristabilire punti di riferimento; migliorano le competenze perché, se puoi riflettere su quelle che emergono per gestire il cambiamento incorniciando questa esperienza nel life based learning, puoi portarle nei vari ambiti. Questa scienza è molto ampia e ci permette di capire, come ha evidenziato la pandemia, che ognuno ha numerose dimensioni identitarie. Prima era ben visibile nelle madri, la cui dimensione della maternità era in aperto conflitto con quella lavorativa. Nella vecchia logica dell’equilibrio vita-lavoro, i due ambiti erano in conflitto. In quella del life based learning e della sostenibilità devono essere in sinergia: la scienza ci dice che chi ha tanti ruoli in realtà ricarica le energie e trasferisce le competenze. Tutto questo è reale, ma non accade perché la cultura, che vede le transizioni come un problema, è più forte e questo è un enorme spreco di risorse.

Chi si rivolge a voi? Solo aziende o anche semplici cittadini?

Il nostro meccanismo riflessivo funziona con tutte le transizioni e ritengo che sia un’opportunità che dovrebbe raggiungere anche i singoli. Noi pensavamo che, avendo un programma innovativo e funzionante, sarebbero arrivati tantissimi clienti, ma così non è stato perché è qualcosa di completamente nuovo e non ha un proprio mercato di riferimento. Anche gli schemi che vorrebbero individuare l’innovazione non sono adatti all’innovazione reale perché rompe tutti gli schemi. I nostri clienti sono aziende coraggiose: la sperimentazione di un modo nuovo di apprendere non è molto incentivata e fa fatica a trovare spazio negli schemi aziendali, quindi la vera difficoltà è la decisione di acquisto, non c’è abbastanza cultura dell’innovazione in ambito di sostenibilità umana. All’inizio i nostri clienti erano solo grandi aziende, ma abbiamo investito molto nella nostra piattaforma digitale e ci stiamo espandendo anche verso imprese più piccole.

Il suo metodo ci può aiutare a semplificare la nostra vita sempre più frammentata rendendola più umana?

In tutti i frammenti della nostra vita, l’elemento comune siamo noi. Con la Kellogg University abbiamo sviluppato un esercizio che è un po’ il cuore di quello che facciamo, il MultiMe. Visualizzi tutti i tuoi ruoli come tanti cerchi concentrici che si allargano sempre di più all’aumentare delle dimensioni e gli attribuisci dei tratti caratteriali che corrispondono al modo in cui li esprimi: questo esercizio ti permette di capire quanto si sovrappongono tra loro. Si chiama self-overlap: se distingui molto tra i vari ruoli ne hai poco, se ti comporti in modo simile in ogni situazione ne hai molto. Più ne abbiamo, più siamo sempre noi stessi, più risorse portiamo in tutti i frammenti della nostra vita. La ricerca ha dimostrato anche che più ruoli abbiamo più tendiamo ad avere cura di noi stessi e che più self-overlap abbiamo più tendiamo a comportarci in maniera etica, cosa che spesso stupisce.

La pandemia come transizione, ha un consiglio per provare a gestirla meglio?

Le transizioni hanno generalmente tre fasi e ora siamo evidentemente in quella neutrale di mezzo: non abbiamo certezze e viviamo continue trasformazioni. Nella prima fase, tendenzialmente contestuale a quella che viviamo ora, dobbiamo scegliere cosa lasciare andare, non come un fallimento, ma onorandolo come qualcosa di importante che è stato e che ora non è più. La terza fase è quella del nuovo inizio: ora noi dobbiamo avere la massima libertà di immaginarlo, ma senza l’ostacolo di ciò che è stato. Quello che temo è che il passato sia talmente ingombrante da non lasciare spazio ad un nuovo inizio che dia senso a quello che stiamo vivendo oggi.